Insegnamenti straordinari

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Insegnamenti straordinari. Intro di Marco V. Masoni

Con contributi di (in ordine di apparizione):

 

Edo e Margherita Masoni, Roberto D’amico, Cristina Magnaschi, Marta Sangalli, Lucia Niccolini, Dania Cusenza, Giacomo Sortino, Lorenzo Vinassa De Regny, Marzia Sellini, Emanuela veronese, Marco Vinicio Masoni, Anna Antonucci, Andrea Bergamo, Michele Ferri, Giovanni Zampieri, Francesca Dellai e Chiara Cais,  Suor Anna Monia Alfieri.

 

                                                                                                                                                                                                                        

Sommario

 

Marco Vinicio Masoni

     Introduzione

Edo e Margherita Masoni

      Il nonno e Margherita: i migliori anni della loro vita?

Roberto d’Amico

     Vittorio Gassman come maestro

Cristina Magnaschi

     Se dovessi insegnarti a dirigere un giornale

Marta Sangalli

     Per stare bene t’insegno a star male

Lucia Niccolini

     Come tentare di farli innamorare dei classici

Dania Cusenza

     Suggestioni per l’insegnamento dell’educazione sessuale

Giacomo Sortino

     La rinascita della “Città dei ragazzi” di Luigi Sturzo

Lorenzo Vinassa De Regny

     Insegnare ai ciechi a giocare a baseball

Marzia Sellini

     Come t’insegno a non distrarti distraendoti

Emanuela Veronese

     Insegnare ai sordi: esperienze di sordità e non solo

Marco Vinicio Masoni

     Volare in un carcere minorile

Anna Antonucci

     Insegnare in un istituto professionale

Andrea Bergamo

     Insegnamento al bivio, alla ricerca di un difficile equilibrio tra      regole, autonomia e creatività

Michele Ferri

     Fare doposcuola

Giovanni Zampieri

     E il vino come te lo insegno?

Chiara Cais e Francesca Dellai

     Permettere il pensiero nella scuola d’infanzia

Suor Anna Monia Alfieri

     Per la libertà di scelta della scuola da parte delle famiglie

 

Introduzione

Marco Vinicio Masoni

Un nonno descrive alla nipote un passato recente che sembra un altro mondo. Un attore ci parla di come si insegnava e imparava nella scuola teatrale di Vittorio Gassman. Il rettore di una scuola premiata dal Presidente della Repubblica scrive dell’emozione di insegnare ai sordi. Una grande insegnante racconta i ragazzi di una scuola professionale…con la loro voce.  Una ragazza insegna a un’amica a star male per riuscire a stare meglio. Un dirigente d’azienda campione di baseball insegna a giocare a baseball ai ciechi. Una professoressa amante del classico mostra quanto son vive le lingue morte. Una nota giornalista racconta come si dovrebbe dirigere un giornale. Un magnifico doposcuola si batte contro la dispersione. Una psicologa racconta come educare all’affettività e un’altra mostra come rendere attento un ragazzino distratto. Altre due ci mostrano come si dovrebbe lavorare con la prima infanzia. Un ginecologo, bravo sommelier, ti insegna a gustare il vino buono. Un insegnante fa volare i ragazzi di un carcere minorile. Un provveditore agli studi tratteggia un quadro realistico della scuola oggi. Un educatore di razza riporta in vita la città dei Ragazzi fondata da Don Sturzo. Una suora, politica, ma senza un partito, si batte da una vita per il diritto allo studio e la libera scelta della scuola pubblica.

E ora andrebbero messe da parte le note spiegazioni etimologiche, le teorie sull’insegnamento, che sembrano fatte apposta per escludere innumerevoli modalità, campi, argomenti, strumenti dell’apprendere e dell’insegnare. Ho letto recentemente in rete (sì, in rete) queste note stupende sulla parola “cerimoniale”:

Ancora una volta, sotto alle cerimonie dei nostri giorni, belle, importanti, accorate, che senz’altro pensiero chiamiamo con questo nome, affonda fino a perdersi la radice antica delle cerimonie da cui il nostro concetto sgorga, in cui possiamo avere l’impressione d’intravedere i gesti lenti di sacerdoti dagli occhi allungati, dagli alti cappelli

Ecco. Allo stesso modo lasciate al termine “insegnare” la nube delle sue connotazioni, non potatelo fingendo di esserne i giardinieri.

Fatevi comparire in un flash e in vaga dissolvenza la coppia di Alessandro e Aristotele, o Andersen che scrive, o la vostra vecchia maestra, ma anche quella caduta che vi sbucciò il ginocchio o quel libro che vi fece sudare. Guardate i portici di Roma antica e i salotti dove si intravede l’ombra del Parini, pensate alla scuola dei pezzenti e dei mendicanti, alle botteghe del Quattrocento, volate insomma con gli occhi che le parole vi donano.

Sarebbe da preferire mille volte il lessico del camionista alla frasetta insopportabile e ritrita “insegnare, dal latino insignare, imprimere segni (nella mente)”, che non significa nulla se nel contempo non si chiarisce cosa sia la mente oggi e cosa diavolo voglia dire “imprimere segni”.

Qui, intenzionalmente, non si vuol chiarire, si lascia tutto alla vostra sensibilità e fantasia. Dimenticate la durezza e l’impotenza delle parole e quindi anche della parola “insegnare”. Impotenza dovuta al fatto che queste, le parole, essendo irrigidimenti, blocchi, istantanee del continuo fluire, non possono rincorrere la vastità dei significati che gli eventi e le cose del presente suggeriscono. Come il cemento a contatto con l’acqua, s’induriscono e stanno ferme davanti allo scorrere del tempo. E poi se ne inventano troppe. Generarle sembra che dia o esprima potere. Una sacra prerogativa di Adamo, donatagli prima che cedesse alle lusinghe di Eva e poi toltagli, stava nel fatto gli fosse concesso di dare nomi alle cose (animali e piante), che fosse dotato così di un potere creativo che lo avvicinava a Dio. Bene, nel tempo il mondo si è complicato e ci appare sempre più complesso, la parte delle scienze che ama essere analitica tende ad essere anche adamitica, divide, sminuzza, suddivide, insomma classifica e nomina sempre più velocemente, sempre con diversi criteri; e non solo la scienza, ma anche le persone del mondo civile, legate quasi per natura al bisogno di classificazione, riordinano, ristrutturano, cambiano, riorganizzano, e a tutto ciò che nasce danno un nome nuovo, a tutto ciò che è vecchio lasciano il nome vecchio, ma anche a tutto ciò che cambia può capitare un nome vecchio. Viviamo nel caos delle parole e non ce ne accorgiamo. Ci si divide inoltre e si combatte per far vincere i significati che a noi vanno bene. Unica via di fuga è la poesia, le cui metafore ci lasciano ogni libertà, ma oggi è di moda la prosa.

Ora, a mia difesa, bisogna che dica che non sto elencando mie fantasie linguistico/ribellistiche. La questione vien da lontano, nientemeno che dalla disputa cinquecentesca se si dovesse preferire il latino o il volgare per dire cose serie, cioè (per allora) scientifiche. Il latino era ritento lingua universale e non solo il volgare, ma addirittura “i” volgari entravano nella disputa. Ebbene l’idea che contino di più i concetti che il suono delle parole o il “disegno” della scrittura viene esposta per la prima volta in modo chiaro da Sperone Speroni, filosofo padovano, nel 1542. Da allora se ne è parlato e combattuto per quasi cinque secoli. Diciamo che questa raccolta di insegnamenti potrebbe essere un omaggio tardivo al nostro predecessore patavino, che, già allora scriveva:

Io ho per fermo, che le lingue d’ogni paese, così come l’arabica e l’indiana, come la romana e l’ateniese, siano d’un medesmo valore, e da’ mortali ad un fine con giudicio formate […] le quali usiamo sì come testimoni del nostro animo, significando tra noi i concetti dell’intelletto

  Passiamo dalle lingue d’ogni paese alla varietà del linguaggio parlato, dei dialetti e degli infiniti lessici locali e sociali e possiamo intuire che l’analogia può reggere. Comunque si parli non c’è la parola “giusta”, ma sempre un’allusione a ciò che abbiamo in mente, o in cuore, a quel fumo chiarissimo chiamato concetto.

E allora ecco che in questo libro abbiamo riportato una fantasmagorica serie di insegnamenti, tutti diversi, ma tutti con qualche “cosa” in comune. Lo si sente, la “cosa concettuale” è un insegnare che esce dai confini delle mura scolastiche, è un’aria diffusa, difficilmente definibile, con mille aspetti, uno per esempio, riportato in un capitolo breve del libro, mostra come insegnare possa essere perfino terapeutico. Altri sono mimetizzati, come il racconto del nonno alla nipote. Probabilmente, frantumando le mura delle definizioni e le superfetazioni linguistiche dei secoli, potremmo scoprire che insegnare e comunicare sono la stessa cosa.

Mi sono chiesto a lungo se organizzare la serie dei capitoli dandole un senso, trasformandola in una narrazione con capo e coda. Sono giunto alla conclusione che avrei tradito l’intento del libro. Gli insegnamenti della vita non arrivano in un ordine prestabilito, la scuola a volte si illude che sia cosi, ma perfino lì ciò che l’altro apprende scavalca gerarchie e scadenze. I contributi che leggerete dunque sono stati posti in queste pagine semplicemente nell’ordine col quale mi sono stati inviati.

Buona lettura.