Leopardi, Epitteto e l'accettazione
Ritengo che nelle psicoterapie più efficaci sia fondamentale il concetto di “autoaccettazione”. Non ne ho la certezza perché leggo poco gli psicologi (non per spocchia, li trovo difficili e spesso non capisco di cosa parlino, mi assumo quindi tutto il peso e la colpa della loro illeggibilità). Leggo molto più volentieri altro e così trovo in uno stralcio di una introduzione al manuale di Epitteto questa bella apologia:
“Imperocché veramente a ottenere quella miglior condizione di vita e quella sola felicità che si può ritrovare al mondo, non hanno gli uomini finalmente altra via se non questa una, di rinunciare, per così dir, la felicità, ed astenersi quanto è possibile dalla fuga del suo contrario. Ora la noncuranza delle cose di fuori, ingiunta da Epitteto e dagli Stoici, viene a dir questo appunto, cioè non curarsi di essere beato né fuggire di essere infelice. Il quale insegnamento, che è come dire di dovere amar se medesimo con quanto si possa manco di ardore e di tenerezza, si è in verità la cima e la somma, sì della filosofia di Epitteto, e sì ancora di tutta la sapienza umana, in quanto ella appartiene al ben essere dello spirito di ciascuno in particolare. Ed io, che dopo molti travagli dell’animo e molte angosce, ridotto quasi mal mio grado a praticare per abito il predetto insegnamento, ho riportato di così fatta pratica e tuttavia riporto una utilità incredibile, desidero e prego caldamente a tutti quelli che leggeranno queste carte, la facoltà di porlo medesimamente in esecuzione.”
Giacomo Leopardi