Formare un gruppo

Cosa significa, oggi, formare gli insegnanti alle dinamiche di relazione ed alla gestione del gruppo? Da non addetta ai lavori, ma con una lunga esperienza nell’insegnamento, permettetemi di raccontarvi un’ esperienza di formazione riuscita.

Su richiesta del Collegio Docenti si era deciso di attivare nel mio istituto un corso di formazione sulle problematiche relazionali. All’inizio non credo proprio che potessimo definirci “un gruppo”: avevamo aderito in molti perché “bisognava farlo” (malinteso senso del dovere di molti insegnanti), incuriositi , forse motivati anche dal fatto che tra i tre formatori che si proponevano, noi avremmo potuto scegliere. E così è stato. E, forse , è cominciata proprio così, potendo scegliere, compiendo quel primo passo inconsapevole di coinvolgimento attivo. Quindi non gruppo di lavoro, ma solo gruppo, “insieme” di persone appartenenti ad un medesimo contesto-scuola, ma che si ritrovava, chi per obbligo (“quest’anno ho le prime, mi tocca”), chi con reali motivazioni; tutti sicuramente molto diversi tra loro e, aggiungerò, non senza qualche rivalità interna. Ed il primo anno del corso, soprattutto all’inizio, questo appariva. Non gruppo, ma riunione di persone che non raramente trovavano un luogo ed un tempo per mostrare un loro “piccolo” potere ( brutta abitudine quella di “saltare nella voce” per esprimere il proprio parere! E dire che in classe pretendiamo la mano alzata per concedere il diritto ad intervenire…). Cosa è dunque successo perché il gruppo, il nostro gruppo, potesse realmente definirsi tale - perché così è stato, considerando il sempre maggior coinvolgimento, la partecipazione, i commenti tra di noi, la riflessione, l'interiorizzazione di quello a cui stavamo partecipando - e fosse sentito come una questione oserei dire “vitale” ?
Qui entra in gioco il ruolo del formatore che, per definizione, “è colui che sa”, di cui abbiamo bisogno (per il nostro aggiornamento, per risolvere i problemi con l’alunno, con la classe, forse anche con il figlio, ecc), che in qualche modo “detiene il potere e detta le regole”. Per lo meno, è quanto solitamente ci si aspetta.
Così non è stato.
E credo che l’esempio sia stato un formidabile maestro. Credo di aver percepito che per comunicare si debba in qualche modo “perdere qualcosa di se stessi”, e quel “qualcosa” che il formatore stava perdendo era il “potere” definito dal ruolo. Come lo ha comunicato? Facendo tutto ciò che chi ha potere non fa: ascoltando, pazientando, non imponendo conclusioni arbitrarie, non ordinando, accettando i punti di vista (le tante verità), comunicando col verbale e col non verbale pari dignità, senza dare certezze, offrendo anche i propri dubbi. Perdendo cioè in autorità per guadagnare in autorevolezza.
Non vi nascondo una sensazione iniziale di quasi disagio. Si interveniva a ruota libera, senza nessun ordine apparente con le nostre modalità di comunicazione a volte involute, prolisse, poco efficaci. Eppure percepivo che era “un fare insieme” : il formatore ci permetteva di entrare come parte attiva in questo processo di co-narrazione. Posso dirlo? E’ come se il formatore ordinasse in qualche modo di non obbedirgli, costruendo inconsapevolmente uno splendido paradosso: cosa c’è di più bello che obbedire/seguire quando non sei obbligato ? Non credo che per il formatore fosse tutto così spontaneo, credo sia costata una certa fatica ed è in questo contesto che il gruppo ha colto l’entità del dono. La formazione dunque non come “inquadramento in una nuova forma”, ma come “iniziazione ad altre forme” di cui noi siamo co-costruttori e che hanno più a che fare con l’essere che con il fare. Questo era avvenuto senza che ce ne accorgessimo. E parimenti il gruppo non era più lo stesso: al suo interno era nato e si era consolidato un sentimento che chiamerei di benevolenza, comunque di grande accettazione reciproca.

Anna Antonucci