Intervento alla Camera dei Deputati

Masoni padova

Marco Vinicio Masoni
Intervento del 12 giugno 2015 alla Camera, sala Aldo Moro, piazza Montecitorio , Roma.

Vorrei ringraziare la dott.ssa Magnaschi e il ministro per l’invito a questo convegno. Ho ascoltato con grande attenzione chi mi ha preceduto e ho raccolto suggerimenti che utilizzerò nel mio intervento. Intanto fatemi ringraziare subito Suor Monia Alfieri, sono stato catturato dalla logica delle sue argomentazione e dalla sua promessa di mostrare come il bullismo sia il frutto anche di una crisi dell’istituzione famiglia.

Un altro ringraziamento particolare alla dott. ssa Febi per l’invito a ricordare norme di legge e soprattutto a “fare”. Sono stati da lei ricordati dei capisaldi normativi, come il Consiglio d’Europa del 2013 (Istanbul) e gli articoli e i decreti sulla formazione ed educazione all’affettività.

Sono tante le cose che vanno fatte. Ora però dobbiamo anche dire come farle.
Qui forse ho un pubblico per lo più “politico” e forse ciò che dico risulterà sgradito a qualcuno ma, lo dico sorridendo e senza allusioni all’antipolitica, io non devo compiacere nessun partito: nessuna riforma della scuola in questi decenni, né a destra né a sinistra - ed è incredibile, c’è da sbattere la testa contro il muro per questa opacità del problema - nessuna riforma della scuola ha dato importanza al cambiamento dei ragazzi e al problema dell’identità.

Qui ho sentito portare argomenti, come dire, “autorevoli”, perché vengono suggeriti e ricordati dai piani alti del palazzo scuola cioè dal ministero. Io che vengo dalle cantine della scuola, carcere minorile, abbandoni, famiglie disperate, insuccessi scolastici ripetuti, spero di poter mostrare che c’è un ponte fra quei piani alti e le cantine ed è da lì, dal dosso di quel ponte, che posso dir: bene ai decreti, bene alle norme... ma non basta!

Cristina Magnaschi (moderatrice):- E’ proprio questo lo scopo di questo convegno

Benissimo...Violenza e bullismo vengono oggi praticati perché questo può sembrare ad alcune ragazze e ragazzi l'unico modo per costruire e difendere una propria identità. Per essere cioè notati, pensati, additati, citati in un mondo che ti fa credere che solo così "esisti".

Ma è meglio partire da una scena vagamente drammaturgica, affinché il pubblico possa calarsi nella parte, immaginate dunque, voi tutti, di spogliarvi dagli abiti di oggi, anche da quelli simbolici, e di trasformarvi...in figli di

braccianti dell’Italia contadina e povera del secolo scorso, ai primi del Novecento. Avete circa due anni, siete piccole e piccoli figli di contadini. Avete osservato i vostri genitori, li avete visti uscire all’alba con la zappa in spalla, portarsi dietro pane e cipolle e un fiasco di vino, e tornare a casa piegati in due dalla stanchezza, nel tardo pomeriggio. Il Belli ci fece un sonetto, su quelle serate al ritorno dal lavoro nei campi, ne ricordo solo una piccola parte, che ci fornisce uno spaccato realistico di quella vita:

‘Na salve reggina
‘n’ insalatina
‘na pisciatina
e ce n’annamo a letto

Cioè la fede, perché ciò che accadeva era sentito come volere divino, la fame, perché l’insalatina è il massimo che ci si poteva permettere e le esigenze del soma, che ci accomunano.
Li avete osservati, d’estate e d’inverno e certamente avete già pensato e immaginato che quella sarebbe stata anche la vostra vita.

Figli di braccianti, sarete braccianti.
In quel tempo e in quel contesto la domanda oggi ritenuta “normale”: “cosa farai da grande?” Sarebbe parsa stupida e assurda. Che vuoi che faccia? Farò il lavoro dei miei genitori, come sempre si è fatto.
Il che vuol dire che in quei tempi duri, e più si va indietro nei secoli più i tempi acquistano una durezza per noi difficilmente immaginabile, in quei tempi duri dicevo, il problema di chi sarei diventato, che mestiere avrei fatto, come sarei stato letto dai miei consociati eccetera, non si poneva. Nasci bracciante, sarai bracciante, nasci possidente, sarai possidente. A prescindere dalle tue doti: se sei geniale, ma bracciante, sarai comunque bracciante, se stupido, ma possidente, resterai possidente.
Ma poi, con i primi decenni del Novecento e con una spinta poderosa nel secondo dopoguerra tutto cambia. Il nuovo urbanesimo, il passaggio per noi tardivo ma possente dalla campagna alla città, la trasferibilità di ruoli, la cosiddetta mobilità sociale, il nuovo benessere, il nuovo individualismo...sconvolgono quelle vecchie certezze. La nuova domanda prende forma, diventa ovvia e se ne dimentica la provvisorietà storica: cosa farai da grande? Che non significa soltanto che “mestiere farai?”, ma anche “chi sarai?” “Cosa si penserà di te?” “Quanti si accorgeranno di te?” “Per chi esisterai?”.
Prende forma il nuovo disperato bisogno di identità. La differenza col passato, un passato ancora vicino a noi, è enorme. Prima si nasceva con l’identità già appesa come uno zaino alle nostre spalle. Potete anche chiamarla destino, o personalità, qui non ci interessano le disquisizioni

accademiche. Mentre prima si nasceva col proprio destino assegnato, ora il destino te lo devi costruire.
E così spero di aver suggerito in modo sufficientemente chiaro qual è il primo problema , il primo compito vitale di chi nasce nei nostri tempi: costruirsi una identità. Se non ce l’hai non esisti, sei invisibile.

Ora vorrei che non pensaste soltanto a quelle belle identità che incontra chi incrocia il benessere: ragazzi laureati, ragazzi che hanno trovato un lavoro che a loro piace, ragazzi, per utilizzare una fantasiosa espressione americana che ha avuto una grande fortuna, ma che non ha precedenti nella storia dell’uomo, ragazzi che si sono “realizzati”, eccetera. No, la questione riguarda anche altro. L’identità, come ho già ricordato, è un bisogno vitale, forse il primo oggi dei bisogni sociali dell’uomo...e per raggiungerla le strade sono più di quelle che portano a Roma.

Ve ne porto un esempio estremo, e metto per cautela le mani avanti, l’esempio è estremo, d’accordo, ma la “logica” che lo sottende è la stessa che guida le vite dei nostri ragazzi.
Dunque, siamo, negli anni Ottanta all’Arco della Pace, monumento milanese che credo voi conosciate e che decenni fa e per un lungo periodo era diventato il centro di ritrovo dei tossicodipendenti della città.
Vi ho già detto che mi interessano le cantine, più che i piani alti dei palazzi, così vado a parlare con quella gente, uno di loro lo conoscevo perché ero stato un suo insegnante durante una sua permanenza al Beccaria , il carcere minorile milanese, dove ho lavorato molti anni. Conosce le mie intenzioni, mi stima, sa che vorrei farlo “smettere”, e così mi dice, ve lo cito a memoria:

Masoni, io lo so che, quando sono “fatto” di eroina e cammino barcollando un po’ piegato sul fianco, con la faccia pallida e inespressiva, la gente mi guarda. Io li sento quelli che mi vogliono male, che mi indicano e dicono “che tossico di merda”, poi ci sono anche quelli buoni, quelli che dicono, “poveraccio, sta male, forse si dovrebbe chiamare un’ambulanza”, li sento tutti, Masoni, sento che vengo additato alle fidanzate, ai genitori, ai figli, sento che ho una funzione, un ruolo, sento che sono “il tossico”. Esisto, Masoni! Ora, se tu mi togli questo, se smetto di essere il tossico, io non ho studiato, non so fare nessun mestiere, perderei anche il contatto con i miei amici disperati come me, nessuno si accorgerebbe più di me. Masoni, io ...diventerei invisibile!

Già. Sarebbe diventato invisibile, e quindi l’identità, sia pure pesante e corriva che questo ragazzo si era costruito, andava difesa, continuando ad assumere eroina.
Certo che l’esempio è estremo. Certo che voi ora dite: che c’entrano i nostri figli, i nostri allievi, con questo esempio?

Ve ne suggerisco il legame portandovene un altro. Questa volta apparentemente “leggero”, ma voi capirete.

Recentemente un ragazzo di quindici anni che ha seguito un mio corso di rimotivazione allo studio, mi prende in disparte e mi dice (dandomi del tu, come fanno i ragazzi d’oggi):

Masoni, guarda che io non è che non studio mai...per esempio settimana scorsa ho fatto una sgobbata di un’ora e mezza, che minchia, Masoni, è una vita che non studiavo così tanto...beh, mi ha interrogato e ho preso sei e mezzo.

Minchia, Masoni, io un sei e mezzo non mi ricordo quando l’ho preso l’ultima volta, era una cosa incredibile, ero contentissimo, mentre andavo a casa continuavo a dirmi C..., ho preso sei e mezzo, seiemmezzzoooooo!
Così entro in casa tutto gasato e grido a mia madre “ mammaaaaa, sei e meeeezzooooo!

Beh, sa mia mamma cosa ha detto?
Ha detto : “vabbè”. E poi si è rimessa a cucinare.
C..., come vabbè? Se prendo una insufficienza, cioè sempre, ci sono liti in famiglia, punizioni, mi tolgono la playstation, il pc, il televisore, un casino di castighi...e col sei e mezzo, “Vabbè”?

Mi pare sia chiaro, il ragazzo non me l’ha detto, ma cosa troverà più efficace per esistere, per essere visto, perché gli altri che contano si accorgano di lui, il sei e mezzo o un quattro?
La questione non è senza tempo, nella storia è cambiata, se si va per esempio nella Cina di settecento anni fa si può scoprire che erano molto rari aggettivi che qualificavano una personalità: è un tipo gentile, è aggressivo, è buono, è cattivo ecc. Era invece sufficiente in quel tempo e in quella cultura indicare il casato; appartiene alla famiglia Cing, e tutto diventava noto e chiaro, questo è ciò che vuol dire nascere con l’identità, col destino già pronto.

Siamo quindi di fronte a realtà storiche, transeunti, occorre accorgersi che i tempi cambiano e che i nostri ragazzi e le nostre ragazze hanno nuovi bisogni di attenzione, molto più che in passato. Occorre iniziare a vedere che l’insegnante ha davanti sempre meno quella entità dotata di un particolare “Io” che era il gruppo classe della nostra infanzia e giovinezza. Occorre vedere che la richiesta degli studenti è di un’attenzione vis a vis, i conflitti sempre più presenti nelle classi ce lo stanno indicando ...Scompare il patriottismo di classe e compaiono nuovi nemici, nientemeno che fra i compagni di classe...

Interruzione della dott.ssa Febi “ Sono conflitti fra gruppi...”

Sì, certo, e stanno a indicare la scomparsa de “patriottismo” del gruppo classe. Frantumazioni, alleanze, coalizioni, una sorta di trasformismo e opportunismo spiccioli, nella dimensione micro sociale.
Anche questo è un indicatore dei mutamenti della famiglia, i singol per esempio aumentano perché si diffonde l’idea che le persone possano cavarsela da sé. Anzi, che DEBBANO cavarsela da sé.

Ora il problema per i nostri ragazzi è scoprire come raggiungere la sicurezza vitale di una identità che non è più data, la garanzia di esistere per gli altri. Ora che il destino me lo devo fare io, qual è la via più breve? E allora pensate quanto è drammatico e pericoloso, da parte di un bullo, scoprire come sia facile picchiare un ragazzino down, farsi riprendere con un telefonino, far girare il filmato sui social ed essere visto da migliaia di persone e, finalmente, esistere: una “esistenza”, una visibilità ottenute senza sforzo.

Certo, senza sforzo, mi direte giustamente, ma non si accorge di quanto è turpe il modo col quale la ottiene?
E allora dobbiamo ricordarci che esistono le sottoculture scolastiche, dobbiamo ricordarci che Erika, quella che uccise mamma e fratellino insieme a Omar, riceveva al Beccaria decine di lettere di solidarietà dai coetanei. Dobbiamo ricordarci che lo scollamento fra scuola e ragazzi sta assumendo dimensioni impressionanti. Col mio lavoro incontro in continuazione esempi di abbandono scolastico alle elementari e alle medie. Ragazzini, bambini, che non riescono più ad andare scuola. E’ vero, la scuola, da agenzia primaria della formazione è divenuta ormai responsabile solo del trenta percento di tale formazione. Occorre allora che recuperi altro. Le idee ci sono, la scuola ha già iniziato a dire che occorre affiancare, oggi, alle competenze disciplinari quelle relazionali. Oggi è il tempo della relazione e dell’ascolto. Il ragazzo che sente di esistere per l’insegnante, che si sente capito e ascoltato, non ha più bisogno di cercare altre strade - ho comunque ne ha meno bisogno - per costruirsi spezzoni di identità.

Un ragazzo tossicodipendente mi disse che si era dato all’eroina per riuscire a entrare in quel certo gruppo di coetanei, e perché entrare in quel gruppo – gli chiesi - era per te così importante da spingerti ad inguaiarti a quel modo? Mi rispose così: Perché in quel gruppo, sanno come sto, magari mi trattano male, a volte ci meniamo, ma ci conosciamo e sappiamo tutti come stiamo, invece a scuola e a casa no.

Grande e terribile insegnamento. Ascoltare l’altro vuol dire fargli sapere che sai come sta.

Magnaschi (moderatrice) - E quindi da qui, da questi bisogni di identità prende vita il bullismo

Certo! L'educazione all' "affettività" allora non può essere altro che fare in modo che ragazze e ragazzi scoprano che si può "contare", "esistere", per gli altri anche in assenza di manifestazioni trasgressive o devianti.
L'ascolto, l'attenzione all'altro, a scuola o a casa, prestato come atteggiamento costante e non solo davanti a comportamenti che stupiscono e feriscono è la modalità principe di questa "educazione".

Potremmo addirittura affermare che i corsi sull'affettività sono utili (quando lo sono) non tanto per i loro contenuti, quanto per lo stile pedagogico "attento" agli allievi e alle allieve. La conclusione coerente allora è che la promozione a scuola di stili affettivi prosociali sia possibile formando gli insegnanti (di ogni disciplina) all'ascolto e promuovendo azioni politiche e tecniche tese a far rivedere e correggere l'attuale idea di gruppo classe (come già sta avvenendo in altri paesi). Le classi di oggi infatti - dato anche il loro numero di studenti e la richiesta di questi di attenzione e ascolto individuale - costringono a una omologazione disfunzionale ai nuovi bisogni di identità.

E concludo rapidamente con una sintesi finale: si educa all’affettività, più che con dei corsi specifici, con un atteggiamento, un’attenzione all’ascolto che in qualche misura può essere presente anche oggi nello stile di ogni insegnante: di matematica, di lettere, di inglese ecc. E direi che posso fermarmi qua, grazie per la vostra attenzione. 

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